Bosnia, quei tremila profughi intrappolati nel ghiaccio
di Francesca Paci in “La Stampa” del 29 dicembre 2020

Il termometro notturno segna -10 gradi a Lipa, il campo profughi a una trentina di chilometri da Bihac, ultimo avamposto bosniaco prima di quella fortezza che si chiama Europa chiusa da 4 anni alla rotta balcanica. Piove ghiaccio. Il cielo plumbeo s'impasta alla neve fangosa che sommerge quanto resta delle baracche bruciate nel rogo del 23 dicembre. Intorno, tra i faggi testimoni del genocidio di 25 anni fa, si aggirano alcune migliaia di fantasmi in ciabatte e coperte infeltrite sulle spalle, tremila secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che in queste ore denuncia il rischio di «una catastrofe umanitaria» per quel popolo migrante in attesa di beffare con la polizia croata anche la sorte. Le foto restituiscono la vergogna di sagome infagottate, volti lividi, mani screpolate serrate intorno ai bicchieri di tè caldo distribuiti ogni giorno dalla Croce Rossa. Da settimane volontari e ong mettono in guardia le autorità locali dalle condizioni precarissime del centro di Lipa, allestito in fretta e furia ad aprile per fare fronte all'emergenza covid ma privo tutt'ora di acqua corrente e soprattutto inadatto alla morsa dell'inverno sui suoi circa mille ospiti. Chiedono di riaprire la struttura di accoglienza di Ciljuge, nei pressi di Tuzla, e quella più vicina di Bira, alla periferia di Bihac, fondamentale dopo l'incendio del campo di Lipa. Invece la popolazione locale ha fatto muro: gli abitanti di questo lembo nord-occidentale di Bosnia sulla strada che da Sarajevo corre verso la Croazia passando per la serba e focosa Krajina, a loro volta sopravvissuti a una guerra tra fratelli, hanno respinto i mille nei boschi e tra le rovine post industriali dove già vagano oltre duemila afghani, pakistani, iraniani, nordafricani scampati al Mediterraneo, tutti giovani uomini soli e tanti minori non accompagnati.
Ne sono transitati 65 mila negli ultimi due anni, questi quelli registrati, prima di svanire, dentro strutture capaci di ospitarne un decimo. «Ho freddo, ho fame, non dormo» sibilano i fantasmi di Lipa nel vento che ghiaccia le barbe senza cura. Le voci arrivano afone. Il racconto di chi è approdato in Croazia violando la cinta bosniaca pagata dall'Ue oltre 60 milioni di euro per bloccare i profughi, è poi, se possibile, ancora peggiore. «Ci hanno trascinati in terra come sacchi di spazzatura, ci hanno spinti nel fiume e colpiti con i sassi, ci hanno mandato addosso i cani» rivelano le 900 testimonianze raccolte nelle 1500 pagine del "Libro nero dei respingimenti", il rapporto sulla rotta balcanica appena pubblicato dalla rete di ong Border Violence Monitoring Network in collaborazione con un pezzo di Parlamento europeo. Un pugno in faccia. «È una situazione di stallo mortale, i rifugiati ci chiedono continuamente sacchi a pelo, scarpe, paracetamolo, ci pongono domande a cui non sappiamo rispondere, sarà l'inverno ad ammazzare chi ha resistito al coronavirus» spiega Silvia Maraone, responsabile per Bihac della ong IPSIA. Era lì il 23 dicembre, quando le baracche sono avvampate a Lipa: «Non c'era nessun piano alternativo alla chiusura del campo di Lipa dopo l’incendio. Dopo un estenuante braccio di ferro con le autorità locali l'Oim e gli altri hanno distribuito scarpe, giacche, coperte e i migranti sono rimasti lì, soli, un po' accampati nella vecchia tenda dell'ex refettorio e un po' dentro i rifugi costruiti tra i boschi con brandine e teloni. I volontari e la Croce Rossa passano una volta al giorno con il cibo e le bevande calde, tamponano, tamponiamo tutti nell'attesa del nulla».
La strada a ritroso verso Sarajevo si è riempita in queste ore di quanti possono sperare di marciare per oltre 300 chilometri. Ma anche là i campi di accoglienza per uomini soli sono pieni e la popolazione, quella che ieri bussava alle porte d'Europa, non ha tanta voglia di convivere con chi bussa oggi. È passato il Natale senza luci, cade la neve ostile: restano i fantasmi che bussano e bussano ancora.