intervista a Simone Cristicchi a cura di Elvira Serra in “Corriere della Sera” del 16 aprile 2021
Cosa l’ha resa felice oggi? «Una cosa molto semplice e basilare: andare a prendere i miei bambini a scuola». Tommaso e Stella. «Hanno 13 e 9 anni. La Dad è stata abbastanza demotivante, li ho visti spenti...». Invece la scuola per lei deve essere soprattutto «una palestra di vocazioni». «È lì che un ragazzino dovrebbe scoprire i suoi talenti. Io metterei un’ora alla settimana di ricerca della felicità». Simone Cristicchi è tornato in libreria con HappyNext. Alla ricerca della felicità (La nave di Teseo, pp. 188, 16 euro), appendice letteraria dell’omonimo spettacolo teatrale e del documentario con cui si completa il progetto dedicato al sostantivo più agognato e ricercato dall’essere umano. Per l’artista, l’impalcatura di un uomo felice deve essere formata da sette parole: attenzione, lentezza, umiltà, cambiamento, memoria, talento, noi. Cominciamo dall’attenzione. Per coltivarla, di giorno, tiene acceso o spento il cellulare? «Silenziato. Lo controllo ogni tanto. Scelgo quando». Lentezza. Qual è il desiderio che ha coltivato più lentamente? «Quello di vivere della mia arte. C’è voluta tanta pazienza... Prima di pubblicare una canzone ho dovuto aspettare dieci anni. Ma la cosa difficile arriva dopo: ed è, appunto, riuscire a vivere di quello che fai. Non tutti ce la fanno». Umiltà. Chi è la persona più umile che ha incontrato? «Franco Battiato. Mi volle conoscere dopo che avevo vinto Sanremo nel 2007, con Ti regalerò una rosa, e mi invitò a casa sua a Milo. Non posso dimenticare la sua umiltà, nonostante la sua sconfinata cultura a tutto campo: non mi ha fatto sentire il peso della sua presenza». Cambiamento. Il più significativo della sua vita? «La nascita dei miei figli, perché fino ad allora avevo una visione simonecentrica, ero sempre sotto i riflettori. Quando è nato Tommaso è cambiata la prospettiva e la cosa più importante è stato lui, la sua salute e la crescita armoniosa». Memoria. Qual è la cosa più preziosa che ha? «Probabilmente il leoncino con la palma del Festival di Sanremo, perché rappresenta un punto di arrivo e nello stesso tempo di partenza: quel premio mi ha spalancato una porta di grande libertà, ma anche di responsabilità verso il mio pubblico». Talento. Qual è il suo? «Talento è apertura verso l’altro. Talento è stato trasformare il mio dolore — ho perso mio padre quando avevo 10 anni — in qualcosa di positivo e di bello». Noi. Nel libro parla del colibrì che porta da solo l’acqua per spegnere un incendio pur di fare la sua parte: lei come fa la sua? «Ho sempre dato all’artista un’importanza sociale. Vidi per la prima volta Qualcuno volò sul nido del cuculo durante un’autogestione al liceo classico: quell’opera d’arte ha influenzato la mia vita e il mio modo di vedere... L’artista ha una enorme responsabilità in ciò che comunica. Non penso che tutto quello che faccio rimarrà nella storia, ma nel momento in cui vivo posso essere utile a me e agli altri con le mie opere. Questo mi dà una enorme felicità». È credente? «Sono ancora combattuto. Ma sono più propenso a credere che a non credere». Quale sarà la sua prossima felicità? «Tornare sui palcoscenici. Non solo per me, ma per quelli che lavorano alle mie spalle, almeno dieci famiglie. Vedo un accanimento verso il mondo della cultura, mentre ci sarebbero innumerevoli soluzioni per tornare alla musica e al teatro dal vivo. Per esempio all’aperto». E se piove? «Una volta è capitato a Torino a un mio concerto. Le persone hanno aperto l’ombrello».
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