di Vincenzo Passerini
in “Trentino” del 24 dicembre 2020
Una bellissima notizia questo riconoscimento del "martirio in odio alla fede" per il giovane giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990. Diventerà beato per decisione di Papa Francesco. "Per la sua dirittura morale per quanto riguarda la giustizia, radicata nella fede" , e perché fu "irriducibile a tentativi di corruzione" si legge nella nota del Vaticano diffusa il 21 dicembre scorso. Una magnifica lezione evangelica e di educazione civica in questi giorni così difficili che ci stanno avvicinando al Natale. Una lezione anche laica, di fedeltà esemplare alla Costituzione. Scriveva il giovane Livatino nella sua agendina il 18 luglio 1978: “Ho prestato giuramento: da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige”. Lo chiamano “il giudice ragazzino”. Ma questo appellativo, che potrebbe a prima vista suonare simpatico, per via dei 38 anni dell’incorruttibile giudice, in realtà nasce da una infelice dichiarazione dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Perché otto mesi dopo l’assassinio di Livatino, Cossiga, che aveva un pessimo rapporto con i magistrati indipendenti e con le loro inchieste ”pericolose” per la politica, disse: “Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza.” I genitori di Livatino non hanno mai perdonato a Cossiga questo insulto alla memoria del figlio e al lavoro coraggioso di tanti giovani magistrati che spesso facevano le inchieste e i processi che magari i più vecchi non avevano voluto fare. Come ricorda Nando Dalla Chiesa nel suo indimenticabile libro “Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione”, uscito nel 1992, il giovane giudice diede un contributo decisivo, come sostituto procuratore ad Agrigento a partire dal 1979, ad alcune storiche inchieste che conseguirono indiscutibili risultati: l’inchiesta sul colossale giro di fatture false dei cavalieri del lavoro di Catania; le vicende legate all’ospedale di Agrigento, inquinato da inefficienze, sperperi e illegalità; i traffici di armi di Giuseppe Milazzo; e infine, la più importante, l’inchiesta sulla mafia ad Agrigento e i suoi intrecci con la politica. Due anni di enorme lavoro, ricorda Dalla Chiesa, che si conclusero nel 1987 con una importante sentenza di condanna firmata dal giudice Gianfranco Riggio. Che l’appello modificherà solo in parte. Erano in pochi a contrastare la mafia. Alla lotta alla mafia lo Stato credeva fino a un certo punto. La squadra mobile di Agrigento contava in tutto tra i 15 e 20 agenti che dovevano fronteggiare 38 clan mafiosi, accertati dallo stesso ministero degli Interni. Il giorno dell’assassinio di Livatino il capo della squadra mobile di Agrigento disse: “Ho una squadra omicidi formata da quattro uomini”. Livatino nel giro di pochi anni divenne la punta di diamante della lotta alla mafia di Agrigento che secondo troppi rappresentanti delle istituzioni “non esisteva”. Aveva, il giovane magistrato, “pazienza da certosino e intelligenza da Richelieu”, dicevano i colleghi. E un coraggio da leone, vien da dire, perché faceva le inchieste sui mafiosi che magari vivevano dove viveva lui, a Canicattì. Era poco noto al pubblico, ma i mafiosi lo conoscevano bene. E lo ammazzarono. Brutalmente. I quattro sicari, in seguito individuati e condannati, gli spararono mentre era in auto e poi lo inseguirono quando lui tentò di fuggire e gli spararono alla testa. Lui non aveva voluto la scorta. “Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia”, aveva detto. “Mese amaro e pericoloso”, aveva scritto sull’agenda già alla fine di marzo 1984. Ma era andato avanti, diritto. Un vero servitore del Vangelo e dello Stato. Nel nostro presepe c’è anche lui.
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