di Giuseppe Savagnone in www.tuttavia.eu del 5 giugno 2021
La recente Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana (24-27 maggio) ha ufficialmente sancito l’avvio del Sinodo delle Chiese d’Italia, già da tempo auspicato da papa Francesco.
In una intervista all’«Osservatore Romano», Erio Castellucci, arcivescovo di Modena, appena eletto vice-presidente della CEI, ha spiegato il senso di questa scelta. La scommessa è di fare della sinodalità «non un evento a sé, ma uno stile permanente di Chiesa». Dove per “sinodalità” – dal greco syn-odos, “cammino comune” – nella tradizione della comunità cristiana si intende una partecipazione attiva di ciascun membro, qualche sia il suo ruolo, alla costruzione della vita ecclesiale, in uno stile di franco confronto e di intelligente cooperazione. Non si tratta tanto di far valere un diritto, quanto di rispondere a una chiamata e di mettere a frutto un dono proveniente dall’Alto. Ognuno offre quello che è e quello che ha, nella consapevolezza di averlo ricevuto per il bene di tutti, non per esercitare un potere, ma per svolgere un servizio.
Una rivoluzione. Si capisce allora l’auspicio, espresso da mons. Castellucci, che il Sinodo in preparazione non sia un evento, ma un «cammino sinodale». «Organizzare un Sinodo in fondo sarebbe abbastanza facile: si nominano dei delegati, si dà un ordine del giorno, si tiene qualche assemblea… Invece il cammino sinodale è una questione più complessa». Comporta una rivoluzione di mentalità.
Da parte di tutti: dei vescovi, che devono mettersi, nei confronti del popolo di Dio loro affidato, in un atteggiamento di ascolto, più che in quello di chi esige – peraltro con sempre minore successo – di essere ascoltato.
Da parte dei parroci, anche loro tentati a volte dalla logica perversa del «qui comando io», che rende impossibile una reale partecipazione dei fedeli e li confina in ruoli di manovalanza.
Da parte dei presbiteri, in generale, oggi spesso “orfani” – anche a causa della pandemia – di una serie di pratiche liturgiche e devozionali in cui incanalavano le loro attività e tentati di sentirsi perciò superflui, invece di vedere in questo una salutare occasione di liberarsi dal ritualismo e di riscoprire l’essenziale della loro pratica pastorale.
Dei religiosi e delle religiose, colpiti – soprattutto le seconde – dalla crisi vocazionale che caratterizza il nostro Paese, come del resto tutta l’Europa, e ridotti a volte a gestire le ingombranti strutture lasciate loro in eredità dai loro predecessori, senza avere più il tempo e la creatività per ripensare a fondo i loro rispettivi carismi.
Dei laici e delle laiche, molti dei quali solo frequentatori, più o meno assidui, di riti liturgici e, se anche “impegnati” nella vita della parrocchia, disabituati a un ruolo di veri protagonisti e spesso paghi del ruolo – per certi versi comodo – di meri esecutori.
Sinodalità significherebbe confrontarsi e rimettersi in discussione, senza mascherare i segni di crisi. E questo non a partire dalle curie vescovili, ma ascoltando i semplici fedeli, puntando su una consultazione “al basso che dovrebbe coinvolgere le parrocchie, i gruppi, i movimenti.
L’ascolto del “mondo”. E poiché il cammino che la Chiesa deve percorrere si svolge in un mondo di cui, come ricorda la Gaudium et spes, essa condivide intimamente le sorti, la sinodalità dovrebbe implicare anche l’ascolto delle voci di coloro che non si ritengono membri del corpo della comunità ecclesiale, ma che forse sono vicini alla sua anima, e che possono, col loro sguardo dall’esterno, dare un contributo importante a una corretta individuazione e definizione dei problemi.
Le domande aperte. Dietro i formali (e obbligati) consensi alla volontà del pontefice, che ha quasi imposto alla CEI di indire il Sinodo, è facile intuire le sorde resistenze di molti vescovi e lo scetticismo di altri.
Si avrà, da parte dei più perplessi, una reale cooperazione a quella consultazione “dal basso”, senza cui il senso del Sinodo si perderebbe? Più in generale, si riuscirà ad evitare che “dall’alto” si elaborino questionari, griglie di discussione, “strumenti di lavoro”, costruiti a tavolino e molto lontani dalle reali domande della gente? Come evitare che l’istituzione ponga dei freni più o meno occulti a un percorso che nasce proprio per rimetterla in discussione? Come impedire che il Sinodo venga interpretato da molti alla stregua di un fastidioso prezzo da pagare alla moda del “rinnovamento”? O, all’estremo opposto, che ci si illuda con esso di risolvere una volta per tutte i problemi attuali della Chiesa?
Sono domande che potranno trovare risposta solo nei mesi che verranno. Ma nessuno può illudersi di aspettare che altri diano questa riposta, restando semplice spettatore. Che il cammino sinodale cominci “dal basso” significa che ognuno – dalla più umile catechista alle guide delle comunità ecclesiali – deve sentirsi responsabile della sua riuscita o meno. E, come nella parabola dei talenti, ne risponderà al Dio che gli ha dato alcuni doni, che altri forse non hanno, che lo rendono insostituibile per l’opera comune.

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