di Alessandro D'Avenia, dal "Corriere della Sera" del 7 settembre 2020
Il posto che mi è toccato il primo giorno di scuola fu proprio l’ultimo banco. Avevo cinque anni e, in quel settembre 1982 di esaltazione ancora mondiale, iniziava l’ultimo anno dell’asilo, un luogo in cui imparare e giocare erano per me la stessa cosa. Ma la maestra, il mio primo amore, mi prese per mano e disse: «Oggi cambi classe». Mi fidavo ciecamente di lei: poteva darmi solo cose buone. Quando si aprì la porta della nuova aula capii però che mi volevano far diventare grande e per farlo ci volevano un po’ di dolore e un po’ di paura: nessuno mi aveva spiegato che avrei fatto quella che allora si chiamava «primina». Così la maestra lasciò la mia mano e consegnò la mia infanzia al duro mestiere di vivere, che comporta saper leggere, scrivere e far di conto. In un istante avevo perso i miei giochi, i miei amici e l’amore. L’unico posto libero era all’ultimo banco, che occupai a testa bassa e lacrime trattenute in punta di occhi. Non sapevo neanche cosa fosse l’ultimo banco, all’asilo i banchi erano raggruppati in isole: gli amici li guardavi in viso e le mani le lanciavi in uno spazio dove apparivano quelli che ai nostri occhi erano tesori inestimabili (fogli, colori, libri, pongo…). E la maestra girava tra le isole di questo arcipelago creativo: era ovunque, come il mare.
In prima elementare, invece, i banchi diventarono trincee e la maestra il nemico che torreggiava da una postazione che mi sembrava remota e minacciosa. Dei nuovi compagni scorgevo solo le schiene: almeno potevo nascondere la vergogna ed elaborare in pace i miei lutti. La nuova maestra però (il mio secondo amore) mi strappò presto alla tristezza, mostrandomi dei cartelloni appesi alle pareti, su ciascuno dei quali un’immagine vivace rappresentava una lettera dell’alfabeto. La mia immaginazione si mise subito a lavoro, generando 21 personaggi coinvolti in storie invisibili a un occhio adulto, ma non a un bambino che, negli spazi bianchi tra un cartellone e l’altro, riusciva a scorgere le avventure di cui, a scuola chiusa, quei personaggi erano protagonisti: che cosa facevano gnomi, farfalle, ciliegie, api…? Le storie mi aiutavano a dare nome alle cose poco chiare della vita e ad anticipare i miei sogni: più che far di conto, io volevo far di «racconto». L’ultimo banco così divenne per me un luogo interiore, da cui poter immaginare di più perché si vede di più: non un nascondiglio per attività di «contrabbando», ma un posto di guardia da sentinella. Quelle lettere, da allora, illuminano lo spazio del dolore e della paura, rendendolo più visibile e quindi più vivibile, perché questo è quello che fa la cultura: rendere più abitabile la vita, rischiarandola almeno un po’, anche quando quella luce illuminerà cose che non ci piacciono. Sempre meglio delle tenebre.
È da qui che vorrei partire in un periodo che ha confermato ciò che ripeto da anni: la salute della scuola è la salute del Paese. L’emergenza sanitaria non ha debilitato il sistema scolastico, ma ne ha reso evidente lo stato comatoso. La ripartenza sta rendendo tristemente evidenti le ferite (tagli continui e operazioni sbagliate) aggravate negli ultimi anni da governi di tutti i colori. Ritornerei a quel bambino la cui risorsa contro la paura e il dolore, ieri come oggi, resta la cultura che serve a dare senso alla realtà, per poterla affrontare con strumenti di precisione e senza scappare. Non vedo l’ora di tornare in classe perché rivedrò i miei ragazzi che non incontro da marzo. E so che, insieme, facendo bene proprio quello che dobbiamo fare, affronteremo tutte le difficoltà e inventeremo il futuro, perché solo le relazioni generative fanno crescere e solo una cultura profonda illumina le cose, soprattutto quelle oscure. A scuola il tema non è l’emergenza sanitaria, ma che cosa ci faremo, educativamente, culturalmente e politicamente con l’emergenza. Sono i progetti a dar senso agli oggetti e non viceversa: la scuola non verrà rinnovata dal banco singolo o dal tablet, ma dalla vita che sapremo dargli, grazie a relazioni buone e un lavoro ben fatto. Ma se non saremo capaci di dare al presente un senso che vada al di là della prigione della cronaca, lasceremo bambini e ragazzi dietro le sbarre, perché l’assenza di senso riempie lo spazio interiore di paura, paralizza l’azione o la rende manipolabile. Il compito di maestri e genitori, da sempre, è rendere «i nuovi» interiormente liberi, come fa Guido (Roberto Benigni) in La vita è bella: per salvare il figlio trasforma persino il lager in un gioco a premi, dando un senso al male più assurdo. Ma questo richiede l’inventiva che solo l’amore e la cultura sanno suscitare: banchi, mascherine e connessioni, da sole, non basteranno mai. A noi educatori è chiesto di rendere l’emergenza una terra fertile, prima per noi e poi per loro, perché nulla cresce nei piccoli, se non trova cura, luce e libertà, nei grandi. Buon inizio a tutti.
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