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Non servono parole leggere

di don Luigi Ciotti in “La via Libera” di luglio 2022

Trent’anni dalla strage di Capaci (23 maggio 1992) dove perse la via Giovanni Falcone e trent’anni dall’attentato in via d’Amelio (19 luglio 1992) in cui venne ucciso Paolo Borsellino. Trent’anni dalle stragi di mafia, ed ecco che si torna a parlarne. Sarebbe un crimine trasformare questa ricorrenza in un’occasione per spendere parole vuote, al solo scopo di timbrare un anniversario che invece pesa ancora, e non poco, sulla coscienza dell’Italia intera. Per celebrare questo trentennale non servono allora parole leggere, ma scelte e gesti pesanti. Come se ne videro nel periodo subito successivo agli omicidi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Senza dimenticare la morte indiretta della giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, la settima vittima di via d’Amelio, che si suicidò sconvolta per la morte di Paolo Borsellino, a cui era legata come a un padre. Fu una reazione di peso quella di tanti siciliani, e dei cittadini di Palermo in particolare, che fisicamente si strinsero intorno a quelle bare, nella piazza della cattedrale, con affetto e con rabbia. E poi dalle finestre, dai balconi gridarono in maniera inequivocabile il loro no alle logiche di mafia, e sì alla giustizia dello Stato.

Mettersi in gioco. Quelle morti devono alimentare le nostre scelte di vita, che in questi trent’anni hanno dato frutto, ma non abbastanza. Fu pesante la scelta di chi si mise in gioco personalmente. Penso soprattutto a Gian Carlo Caselli, che si caricò dell’eredità di quegli straordinari colleghi ben sapendo i rischi ai quali andava incontro. Ma penso anche a tanti amministratori onesti, in Sicilia e non solo, ferrei nella difesa della legalità, dei diritti, della democrazia. Penso agli imprenditori che iniziarono a denunciare il pizzo, e ai giornalisti che si misero alla caccia di verità e connessioni. Fu pesante la presa di posizione della Chiesa, che attraverso le sue voci più autorevoli rinnegò qualsiasi forma di prudenza, compiacenza e ambiguità rispetto ai poteri criminali. Lo fece il vescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, sfinito dai troppi funerali di donne e uomini delle istituzioni celebrati in quegli anni.

Lo fece Papa Giovanni Paolo II con il suo grido dalla Valle dei Templi di Agrigento, nel maggio del ‘93, quando intimò ai mafiosi: “Convertitevi!”. E lo fecero con rinnovato vigore tanti religiosi e religiose, ma anche laici cattolici, che da sempre predicavano l’assoluta incompatibilità fra mafia e Vangelo. Non fu un caso se nei mesi successivi le mafie uccisero due di loro: don Pino Puglisi e don Peppino Diana. Fu pesante, perché pensata e non estemporanea, la resistenza di una parte della società civile italiana. Società civile e responsabile perché consapevole che era arrivato il momento non solo di commuoversi, ma di muoversi e smuovere le troppe coscienze ancora assopite e complici. Da quella consapevolezza nacquero tante iniziative in difesa della legalità e della giustizia, tanti progetti per restituire dignità e libertà alle persone sottoposte ai ricatti delle mafie, attraverso la cultura, l’informazione, il lavoro, i diritti sociali. Questi trent’anni hanno visto passaggi di peso, nel contrasto alle mafie: nuove inchieste e nuove leggi, nuovi filoni di studio e nuove proposte didattiche, nuovi progetti di antimafia civile e nuove alleanze. Tuttavia sarebbe ingenuo ignorare che ci sono state altrettante leggerezze, inadeguatezze, inadempienze. E nuove vittime: tante altre vittime innocenti.

Una nuova primavera. A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio dobbiamo dare peso, forma ed efficacia politica alla necessità di potenziare il contrasto al crimine nelle sue varie forme: dalla violenza alla corruzione, dai mercati di morte delle armi e della droga all’estorsione e all’usura, dalla tratta agli ecoreati, dal caporalato, all’abusivismo, ai reati finanziari. Meno parole e più fatti! Meno celebrazioni sterili del passato e più attenzione all’oggi, col suo carico di ingiustizie e sofferenze. Senza cedere alla normalizzazione di una presenza mafiosa sempre meglio mimetizzata. E senza paura di definire mafioso tutto ciò che dalle mafie prende esempio: il capitalismo predatorio e senza regole, una politica opportunista, serva del consenso più che al servizio del bene comune, e una cultura della competizione, della sopraffazione e dell’egoismo che contagia ormai qualsiasi settore della vita privata e pubblica.

Falcone e Borsellino, ma anche Carlo Alberto dalla Chiesa e Pio La Torre – uccisi dieci anni prima insieme a Emanuela Setti Carraro, Domenico Russo e Rosario Di Salvo –, come tanti altri uomini e donne delle istituzioni, sono morti per difendere una giustizia intesa non come ideale astratto, ma bisogno concreto, garanzia di vita piena e serena per i cittadini tutti. Quelle morti alimentino le nostre scelte di vita, che in questi trent’anni hanno dato frutto, ma non abbastanza. Non abbastanza! Facciamo fiorire una nuova primavera di coraggio, che dia nuovi frutti di speranza! Coltiviamola con tutte le nostre forze, consapevoli dei limiti e della contraddizioni che affronta chi abbandona la strada agevole della retorica per imboccare quella tortuosa dell’impegno.


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