di Mauro Magatti in “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2022
Sono ormai due anni che la pandemia costringe le nostre società a un difficile e continuo sforzo di adattamento. Era già accaduto con la prima diffusione del virus, e poi con la variante delta, e adesso con la Omicron che in poche settimane è arrivata dal sud Africa nelle strade delle nostre città. Convinti di aver ormai raggiunto una buona capacità di controllo dell’infezione, ci ritroviamo di nuovo in zona gialla. Nonostante tutto, la maggior parte degli italiani guarda con preoccupazione, ma non con sfiducia, ai prossimi mesi. Anche grazie al buon risultato economico del 2021. E tuttavia, dato che gli stati d’animo cambiano in fretta, non si deve smettere di riflettere su quanto sta accadendo e sui significati che gli eventi portano con loro. Vi sono almeno quattro considerazioni che questa nuova ondata suggerisce.
La prima è che, a differenza di quanto avevamo sperato, siamo ancora in mezzo alla pandemia. Ma non siamo tornati al punto di partenza. La situazione, per fortuna, è molto diversa rispetto a due anni fa. Anche se Omicron ci ha investito con una velocità sorprendente, oggi siamo meglio organizzati e, soprattutto, più protetti. Tuttavia, questa quarta ondata ci dovrebbe indurre a mettere da parte ogni trionfalismo. C’è ancora molto che non conosciamo. Gli stessi vaccini — barriera fondamentale per contenere i danni che avrebbero potuto essere molto più devastanti — mostrano di offrire una copertura assai minore di quella che ci eravamo immaginati. Non un anno, ma pochi mesi. E ciò vuol dire che la nostra capacità di comprendere a fondo questo virus è ancora limitata. Ci vuole ancora tempo per perfezionare le nostre difese. Meglio dunque calibrare i toni. La scienza, che per definizione è umile, sa che non può mai dispensare certezze granitiche. Per quanto fondamentale, la scienza non ci «salverà». Non è il suo compito. E tanto meno da sola. Per uscire da questa situazione e gestire le sue conseguenze occorrono anche la capacità delle istituzioni di dare risposte concrete e il contributo di tutti nell’adottare comportamenti consapevoli e responsabili.
La seconda considerazione è che i tempi sono più lunghi di quelli che avremmo desiderato e sperato. Già nell’estate del 2020 e poi in quella del 2021 abbiamo pensato che tutto fosse ormai alle nostre spalle. Non è stato così. Naturalmente, possiamo augurarci che abbia ragione chi sostiene che questo sarà l’ultimo inverno di pandemia. Ma la verità è che non lo sappiamo. Soprattutto, quanto sta accadendo ci insegna che la retorica della ripartenza è sbagliata. Il virus, infatti, è destinato a diventare endemico. Ma questo significa che dovremo mantenere delle attenzioni e che alcuni nostri comportamenti e abitudini del passato dovranno stabilmente cambiare.
In terzo luogo, la durata della pandemia aggrava la sua eredità soprattutto in termini di esasperazione di quelle disuguaglianze che già erano molto forti. Non siamo colpiti tutti allo stesso modo. Dal punto di vista economico, un conto è chi ha una posizione garantita e stabile, un conto chi svolge un lavoro autonomo. E va peggio ancora per i precari. In questi due anni, poi, ci sono settori che sono cresciuti mentre altri sono tracollati. Le donne stanno pagando ancora una volta un prezzo più alto rispetto agli uomini. Mentre i giovani stanno perdendo occasioni preziose dal punto di vista formativo e lavorativo. E molti di loro stanno sviluppando una sfiducia nei confronti del futuro. Quando usciremo da questa pandemia non saremo più gli stessi e soprattutto non saremo tutti uguali. Le nostre memorie saranno differenti e i nostri sentimenti divergenti. Lavorare per superare la pandemia significa anche contrastare attivamente i solchi che si stanno scavando tra di noi. Per non doverne poi pagare il prezzo tra qualche anno.
Infine, la variante Omicron ci conferma quanto è stato più volte, ma inutilmente, ripetuto: il coronavirus è la prima pandemia planetaria che si produce e riproduce in rapporto all’elevato livello di integrazione del mondo in cui viviamo. Di conseguenza, la soluzione non può che essere globale. Ciò significa che va vaccinata l’intera popolazione mondiale. Ad oggi siano lontanissimi da questo obiettivo. La percentuale di coloro che hanno completato il ciclo vaccinale è il 70% nella UE e il 60% negli USA, ma in altri continenti non si raggiunge il 50% e in molte parti dell’Africa il 10%. Così si rischia di non uscirne mai. È incredibile che, davanti a una pandemia globale, non si sia ancora riusciti a trovare una soluzione al tema dei brevetti. Al di là delle (pure importanti) ragioni umanitarie, ci sono ragioni di razionalità scientifica e politica che dovrebbero spingerci in questa direzione. In quanto questione planetaria (come tante altre che dovremo gestire in futuro, a partire dal riscaldamento globale) per mettere a punto le risposte di contrasto a una infezione che attraversa i confini abbiamo bisogno di condividere la conoscenza e di coordinare gli interventi. La pandemia è una occasione per dimostrare (concretamente) che la cooperazione è, in alcuni momenti, necessaria e superiore alla competizione.
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