di Luigi Manconi in “la Repubblica” del 15 giugno 2021
Sull’atroce vicenda di Saman Abbas si comincia, finalmente, a discutere con serietà. Grazie, va detto, alle significative parole pronunciate da esponenti della comunità musulmana italiana. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, "l’Islam c’entra". Insomma, quello della diciottenne pachistana non è stato l’ennesimo femminicidio (uno dei 46 registrati nel solo 2021). Si tratta, piuttosto, di un crimine che ha visto coinvolto un intero clan parentale, determinato a osservare ciò che rappresentano un principio e una norma. Principio e norma che sono l’esito dell’incontro tra un’idea fondamentalista dell’Islam e una tradizione patriarcale e tribale dell’ordine familiare. È quanto sostiene Karima Moual, giornalista di origine marocchina, proveniente da "una famiglia berbera molto tradizionale che prega cinque volte al giorno". Ma non troppo diversamente si è espressa Sumaya Abdel Qader, di origine giordana, consigliera comunale di Milano. Dunque, se è errato demonizzare l’Islam nel suo complesso, è altrettanto superficiale rifiutarsi di vedere il peso esercitato da un’interpretazione integralista del Corano nel condizionare i comportamenti di una parte rilevante dei fedeli. Anche perché lo scontro tra due concezioni dell’Islam, l’una fondamentalista e l’altra progressiva, è al centro di una grande battaglia culturale, in corso in tutti i Paesi occidentali nel cuore delle stesse popolazioni musulmane (in Italia, circa 1 milione e 600 mila individui). Un conflitto intergenerazionale. Una sorta di "lotta di classe" culturale, che oppone i musulmani di seconda generazione a gran parte dei musulmani di quelle precedenti. È una sfida combattuta all’interno delle comunità e delle famiglie con risultati alterni e che ha visto Saman soccombere davanti al dispotismo familiare fattosi azione criminale. Ma, grazie al cielo, decine di migliaia di sue coetanee e coetanei stanno vincendo la loro battaglia: o perché trovano in famiglia condivisione di valori e aspettative, o perché riescono, nonostante tutto, a ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Sono i tantissimi giovani musulmani che frequentano le scuole e le università italiane, che intrecciano relazioni sociali "miste", che si riuniscono in forme associative che ne agevolano l’emancipazione. E ho contato almeno una dozzina di giovani consigliere comunali musulmane, elette nelle assemblee rappresentative. Sia chiaro: l’esito del conflitto in corso è tutt’altro che scontato. Quello di Saman è un caso raro, ma certamente non unico, e sono assai preoccupanti i dati che ci parlano di un alto numero di adolescenti alle quali viene impedita la prosecuzione del ciclo scolastico. La questione per la democrazia italiana è una: come agevolare questo itinerario, talvolta doloroso, di liberazione individuale e collettiva? Possono contribuire a ciò sia la riforma della legge sulla cittadinanza, sia la sottoscrizione di un’intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche. Ma quel che conta davvero è la nostra capacità di entrare in rapporto con questi "nuovi italiani". Avere con essi, cioè, una relazione aperta, che permetta ai musulmani di "apprendere" la fatica della democrazia e agli italiani di "imparare" il complicato gioco del pluralismo.
Mutatis mutandis atteggiamenti simili si sono avuti anche all'interno della Chiesa: un modo di vivere la Parola che investe la personalità e le tradizioni, atteggiamenti che hanno bisogno di essere immersi nell'amore (e rinnovati dall'amore) e, perché no?, anche vivificati da un sano illuminismo assai carente tra i fedeli e le gerarchie.